PELLEGRINI DELL' ASSOLUTO
Estetica del Sacro
2007
La progressiva, irrefrenabile scomparsa del sacro dalla società contemporanea, lamentata da Sabino Acquaviva nel suo noto saggio del 1980 dedicato alla questione[1], era certamente ormai già in quegli anni oggetto di comune, condivisa constatazione e sembrava poter essere ricondotta in massima parte alle conseguenze del progresso stesso nella sua comune accezione contemporanea, così come del resto avevano intuito in precedenza sia Comte che Weber, il quale ultimo aveva parlato del disincanto del mondo (Entzauberung) prodotto dal costituirsi degli stati moderni e dallo sviluppo industriale.
L’organizzazione del lavoro della società industriale avanzata e postindustriale interviene infatti a modificare radicalmente il concetto di tempo festivo rendendo quotidiano ciò che invece dovrebbe stare nell’ordine dell’eccezionale. Contestualmente la diffusione capillare e l’uso massiccio degli strumenti di comunicazione di massa, la mancanza di ogni sospensione nel flusso delle parole e delle immagini, abbattono la soglia del tempo passato e con essa la memoria che contrassegna criticamente ed emotivamente la distanza tra evento e racconto, presentificando la realtà che viene svuotata di ogni rimando ad altro, desimbolizzando i luoghi che vengono trasformati in non luoghi, mentre allo stesso modo gli eventi si trasformano in non eventi, i racconti in vuote lalie.
Può sembrare decisamente paradossale che il tempo della festa muoia proprio quando si afferma nel mondo occidentale la cultura del tempo libero, la liberazione (o piuttosto la sua apparente manifestazione) dall’alienazione del lavoro. Il fatto è che come la liberazione dal lavoro non coincide affatto con il superamento dell’alienazione, così il tempo libero non coincide con quello della festa ma lo sostituisce impropriamente, senza coprire alcun spazio simbolico, con il consumo di oggetti inutili, inventati per riempire il vuoto dell’esistenza e determinare fasulli status symbol, con divertimenti - televisivi e non - d’ogni specie, con spettacoli sbalorditivi, dai grandi eventi espositivi organizzati per stupire, alla musica degli ipergalattici concerti di massa, con viaggi - vacanza studiati ad arte per il profilo vorace del neoconsumatore.
Non è plausibile dunque la semplicistica equazione che vorrebbe ricondurre l’abolizione del tempo della festa semplicemente alla liberazione dal tempo del lavoro prodotta da un progresso che ormai guida l’umanità a leopardiane “magnifiche sorti e progressive”, dato che tutti i giorni sono diventati una festa, una vita gioiosa.
Il tempo della festa in realtà muore perché è caduta la concezione che sostiene la dimensione del sacro, dell’eccezionale e di quell’altro da sé, di quel ganz Anderes, di quella alterità radicale di cui ci ha parlato Rudolf Otto[2], una dimensione del sacro senza cui la vera festa è inattingibile.
Non possiamo considerare feste i tripudi calcistici prolungati fino a notte fonda dopo una vittoria di squadra, non sono feste lo spritz o happy hour del venerdì sera, o lo shopping del sabato, né la discoteca fino all’alba.
E non bastano i periodici avvisi di ritorno a qualche forma di religiosità o di pseudoreligiosità new age, verificatisi in questi ultimi anni, per far pensare ad un recupero di autentica sacralità.
Tali comportamenti si radicano per lo più nel gioco programmato dalla società dei consumi, sono autentiche forme del consumo che in massima parte non esprimono se non un temporaneo smarrimento davanti all’impossibilità di incontrare il Sacro sul proprio cammino, una debolezza che potrà essere colmata con gli opportuni presidi.
Quello che ci resta e che possediamo con certezza sembra essere unicamente il tempo profano, un tempo sincronico, orizzontale e profondamente nichilista, che si succede senza racconto, senza inizio e senza fine, mentre quello che abbiamo perduto è il tempo del mito, il tempo ciclico dell’inizio e della fine, il tempo riparatore dell’eterno ritorno all’eguale, il tempo rigeneratore della festa che segue al tempo della paura.
Se il primo è un tempo dell’ordine, il secondo è invece un tempo del disordine, ma di che ordine e di che disordine si sta qui parlando?
L’ordine del tempo profano è l’ordine dell’uomo che ha conquistato la natura non l’ordine della natura stessa, di ciò che è così perché così deve essere, di ciò che sta al suo posto perché è sacro e in nessun altro posto può stare, tranne postulare un pericoloso e violento ribaltamento.
Proprio questo “stare al loro posto delle cose” è per Levi-Strauss[3] il valore che indica e sostiene la presenza del sacro. Un ordine che si radica nella consapevolezza del disordine che l’ha preceduto e che dunque porta pur sempre in sé la dimensione del rischio, della trasgressione, della paura e della violenza che insidiano il sorriso della festa.
Un ordine inoltre che scaturisce da una relazione fondante tra Uomo e Natura, ove l’uomo riconosce alla Natura un valore trascendente, la forma di un modello universale che rinvia al tempo del mito, ad un tempo altro.
Così infatti Claude Lévi-Strauss definisce il sacro: "E' sacro ciò che attiene all'ordine dei mondi, ciò che garantisce questo ordine. Ma il sacro concerne anche l'uomo e non solo il cosmo fisico. Il sacro è in tal senso un valore, una produzione culturale".
Il dominio del sacro perciò è l'insieme dei valori, delle pratiche, delle idee e delle credenze che l'uomo utilizza per dare senso e valore all'esperienza.
Il sacro garantisce un ordine: l'ordine del mondo e l'ordine dell'uomo.
Sacro è ciò che ci ripara dal rischio del caos, dall'angoscia del nulla, tramandando un ordine originario e inviolabile, tabù.
E il sacro è sistema di valori, che ci fa esistere nel mondo, ma – quando questo ordine viene meno – è anche salvezza dal mondo.
Quando il mondo sembra produrre soltanto realtà scellerate e nefandezze, tragedie come la guerra, lo sterminio, il sacro può indicare una via di fuga verso la salvezza.
E quindi il sacro è anche un percorso soggettivo, oltre che un linguaggio collettivo.
Ciò significa che il sacro si può perdere o conquistare a seconda di quanto facciamo come persone e come collettività per garantire un certo ordine che corrisponde al modello che la natura ci ha consegnato, secondo un principio di valore che deriva dal riconoscimento da parte dell’uomo che, proprio perché in natura non esistono valori, ma è la cultura come prodotto dell’interazione tra uomo e natura che li ha prodotti, egli ha l’obbligo di preservarli, di difenderli, di conferire loro sacralità e dunque senso.
Peraltro non possiamo non condividere l’osservazione di Umberto Galimberti[4], quando sostiene che il processo di desacralizzazione è ormai compiuto anche in virtù del fatto che da simbolo di un significato trascendente, la natura è divenuta cosa, puro materiale per la costruzione dell’artificiale, dunque dato eminentemente tecnico di pura leggibilità scientifica, corpo indagabile attraverso uno sguardo razionale e analitico che annulla qualsiasi possibilità di lettura altra, consegnato unicamente al dominio della tecnica, in quanto solo così sperimentabile, indagabile, manipolabile.
Tale procedimento esclude dall’orizzonte del nostro interesse tutto quanto sfugge al controllo della ragione e al braccio della tecnica, tutto quel ganz Anderes che invece costituisce l’assolutizzazione del sacro come senso e sostanza della vita.
La vita stessa, priva di ogni sacralità, si consuma come oggetto profano, frutto di cure alimentari, sanitarie, psicologiche che ne preservano il più possibile intatta la veste biologica, non la sostanza psichica, a malapena affiorante dai quotidiani disagi, dalle indesiderate espressioni di una inguaribile malattia dell’anima che accompagna, senza emozioni, solitarie inesistenze abitatrici di una terra inospitale e straniera. Tutto ciò che la ragione non può attraversare è escluso dall’esperienza, dunque per il sacro non c’è posto, se non seguendo degli itinerari previsti, calcolati su misura, attraverso riti e forme di religiosità che concedono emozioni soppesate, producono buoni sentimenti, evitano sapientemente l’approccio con dimensioni eccessivamente arrischiate.
Ma se non c’è più posto per il sacro, se non per un’esperienza limitata e banalizzante del medesimo, vuol dire che a cadere è la ricerca stessa del senso.
Ricerca di senso è infatti il sacro e ricerca di senso è e rimane anche l’esperienza dell’arte.
Questo è ciò che lega indubitabilmente la dimensione artistica dell’esperienza umana al sacro.
Il proprio lavoro stesso ha qualcosa di sacro per l’artista, dal momento in cui egli si occupa non tanto del lavoro in quanto tale ma dell'anima del lavoro e tutto il suo impegno è rivolto a mantenere vive le ragioni dell’operare, a conservare intatta la scintilla a fare, a costo della propria stessa condizione materiale e fisica, a tutti i costi.
Quando si guarda alla gestione tecnica ed economica dei grandi eventi espositivi, alle politiche mercantili, al marketing e alla gestione dell’immagine che regola la vita degli artisti più famosi, al business che domina incontrastato nelle scelte dei musei e delle principali gallerie internazionali. si può pensare che l’arte abbia dimesso anch’essa per sempre e da tempo i territori del sacro, che sono anche quelli del rischio, volgendosi con laicità profana ad una disincantata pratica che invoca la normale realtà e la sicura quotidianità dell’esistenza come orizzonte concreto e condiviso dell’esperienza del vivere.
La stessa consapevolezza infine di fondare la propria pratica entro una concettualità tesa a rafforzare la natura razionale dell’opera, tipica di molta arte contemporanea, ed a collocarla quindi entro il percorso di un fare che genera navigazioni spesso ai bordi dell’isola della ragione, sembra contraddire l’esperienza della radicale alterità, dell’eccezionalità cui il sacro rinvia per eccellenza secondo Eliade[5].
Sacro e profano non hanno punti di contatto in Eliade, opponendosi fortemente tra loro.
Il senso e la luce sono nel sacro mentre il profano e il quotidiano sono del tutto svalutati.
Tuttavia oggi l’arte sembra indicarci in modo intrigante una direzione che assume come centrale una rinnovata dialettica tra sacro e profano, nella cui relazione si agitano ancora fermenti vitali e ci dice come, scavando nell’esperienza del profano, si possano bensì sollevare i concreti fantasmi del sacro, anzi: la disincantata pratica di stringente realismo che l’artista adotta con radicalità inusitata rispetto al passato, proprio essa può essere paradossalmente assunta a paradigma di una necessaria peregrinazione del senso che, accettando fino in fondo l’amaro calice della quotidianità, della normalità, non si esilia ma si incarna nel reale come ultima regione e possibilità del suo abitare in prossimità dell’uomo, indicandoci nel fascinus inappagabile della perfezione dell’oggetto contemporaneo, del più sofisticato prodotto tecnologico, un tratto tipico del sacro, qui condotto al carattere assoluto e quasi straordinario dell’esperienza estetica della merce.
In tale prospettiva l’oggetto-merce riabilitato e restituito dall’arte a nuova esistenza appare non più soltanto come mero prodotto della tecnica ma come luogo di un’apertura verso un’infinitezza della forma che si autotrascende, manifestando una tensione verso l’assoluto, inteso come ab-solutus, sciolto da ogni vincolo finalistico o funzionale, elemento di una relazione capace di ricostituire un flusso sensoriale smarrito, extraordinario, altro rispetto all’ordinario.
Nei miei lavori, fin dagli esordi nei primi anni 70, ho toccato più volte in vario modo, il tema del sacro. Nel 1973 ho realizzato alla Galleria Pilota di Milano una performance e un film 16mm intitolati In quibus membris corporis umani sacra religio (Figura 1) mentre del 1975 è la performance Renaissance (Figura 2).
In ambedue i casi si trattava di un’azione che mettendo in campo la nuda corporeità dell’artista, riconosceva al corpo un fondamento di sacralità da cui, tramite il linguaggio, poteva generarsi la metafora del senso.
Varie parti del corpo venivano segnate e indicate direttamente, sotto gli occhi del pubblico presente in galleria, da una scrittura che traeva alla luce i significati del nostro corpo, nascosti e tuttavia ben presenti e testimoniati anche dalle più antiche tradizioni. Così ad esempio il lobo dell’orecchio sinistro veniva indicato con ML (memoriae locus) in riferimento al gesto già da Plinio il Vecchio menzionato di toccarsi l’orecchio quando ci si sforza di ricordare qualcosa che non ci sovviene. Ancora il dorso della mano veniva siglato con la scritta QR OAA (quaedam religio … osculis adversa appetitur). Infatti anche in quella parte del corpo, come in tante altre che venivano via via scoperte “est quaedam religio …”.
In Renaissance, il corpo veniva legato con una corda dipinta che poteva figurare una sorta di ombelico, in posizione fetale davanti alla scritta cubitale Renaissance, Rinascita o Rinascimento.
Rinascita dell’uomo e rinascimento dell’arte.
Ma per venire a tempi più recenti, è nel corso degli anni 90 che si sviluppa un complesso ciclo di lavori denominato Grund - Grab (Figura 3). Il titolo mette in luce apertamente il legame simbolico di vita e morte che l’immagine del suolo e della tomba suscitano, ma Grund è anche il fondamento e rinvia quindi all’origine, al principio di ogni cosa, sul cui terreno materno posa il senso dell’esistenza.
Qui il Grund-Grab, apre per me una sorta di inscindibile diade di significati, assume varie connotazioni e si può incarnare nella tragedia dell’individuo come in quella della collettività, nella santità di figure eccezionali ben stagliate nella storia umana come sono i poeti, gli artisti, i filosofi oppure anonime, come quella di un oscuro partigiano che al fuoco dell’ideale ha immolato la propria esistenza o di chi, egualmente giovane ed inerme, è passato nel fumo di Auschwitz e non ha più nome, ridotto a zero, a vocale senza suono.
Sono queste forme della santità, sono questi sacrifici di uomini innocenti che suscitano l’ammirazione, lo spavento e la fiamma del sacro.
Del 2005 è invece il progetto realizzato nell’ambito di una mia residenza artistica effettuata presso l’Abbaye Royale di Fontevraud, nella regione della Loira, luogo suggestivo di straordinaria spiritualità ma anche dolore, patrimonio mondiale dell’umanità.
Asperges me Domine (Figura 4) è una videoinstallazione ambientata nelle cachots dove le monache venivano recluse per punizione.
Si tratta di un luogo dove il naturale richiamo alla vita spirituale trova una stretta connessione simbolica col tema della punizione, del dolore, della follia, dell’espiazione, della prigionia, quasi anticipando il tragico destino di prigione e di tetro reclusorio che Fontevraud avrebbe avuto nella storia successiva, dalla Rivoluzione francese fino all’occupazione tedesca della Francia, quando vi si insediò il Comando tedesco che pronunciò numerose condanne a morte di maquis francesi impegnati nella resistenza al nazifascismo, rimanendo poi una prigione ancora per vari anni nel dopoguerra.
In quella ex abbazia trasformata in prigione pare si sia trovato recluso per un certo tempo anche André Gide.
Avevo installato un monitor in tre delle quattro celle e in ognuno dei monitor si mostrava un’azione diversa che rifletteva allo stesso tempo la dimensione quotidiana e discreta della vita monacale ma anche la terribile, solitaria, ossessiva ripetitività di un gesto che condensa in sé la possibilità del riscatto della purificazione essendo insieme il pane del dolore e l’acqua della tristezza[6].
In una prima cella si vedeva l’abluzione delle mani, in una seconda quella della bocca, in una terza degli occhi mentre, nella quarta cella che era anche l’unica illuminata, si sentiva solo il suono provocato dallo stillare dell’acqua sulla pietra. Le azioni erano lente, rituali, maniacali, avvenivano dopo una pausa impercettibile di immobilità. Il suono era leggero e continuo, l’atmosfera dolente. Non c’era il trionfo della virtù ma il dolore della punizione e la speranza del riscatto a prevalere.
L’idea che avevo in testa era di lavorare intorno all’immagine dell’acqua che purifica, monda e ristora, restituendoci alla vita e riscattandoci (dal peccato ovvero dalla malattia dell’anima sì, ma anche dalla sofferenza del corpo e della mente, la cui dimensione sacrale è ridestata nel tema dell’espiazione della pena).
I luoghi dell’Abbazia di Fontevraud infatti – come ho detto - avevano conosciuto fin dall’inizio la vita quotidiana delle comunità monastiche colà avvicendatesi per secoli, ma anche il dolore della reclusione e della prigionia.
La presenza emblematica dell’acqua – vivamente simboleggiata dalla relativa vicinanza al fiume Loira ma significativamente rilevabile anche nella struttura e nei segni esterni dell’architettura abbaziale ( i grandi collettori, le condotte, le fontane) e del paesaggio intorno ad essa costruito (gli stagni, vivai medievali per l’approvvigionamento del pesce) - mi sembrava capace ancor oggi di rinnovare simbolicamente il significato complesso ed articolato di un luogo reso austero e solenne tanto dalla pratica liturgica e dai gesti ritmati di una vita di lavoro e preghiera ispirata a un religioso sentire, quanto dal patimento fisico e morale che deriva all’uomo dalla privazione della libertà.
L’acqua infatti, con il suo benefico fluire, sembra mitigare la durezza e l’asprezza della pietra, conferendo una comune speranza di salvezza morale e di libertà.
I riti dell’abluzione delle mani, della bocca, degli occhi, che accompagnano, insieme alla preghiera e con ritmo sempre uguale, la vita monacale diventano anche l’espressione di piccoli gesti, vere e proprie icone del quotidiano che sottolineano e scandiscono – quasi autisticamente nel loro continuo ripetersi - la dimensione temporale dell’esistere, un tempo dell’uomo che acquista senso solo se capace di riflettere un più assoluto ed ultramondano ordine temporale.
Disponendo nelle celle alcuni monitor - icone che mostrano immagini (di mani, bocche e visi) indefinitamente femminili mentre compiono gesti di abluzione con l’acqua intendevo evocare una memoria attraverso la quale fosse possibile cogliere da una parte una sorta di vocazione femminile alla cura e al ridestare con semplici atti il sentimento del sacro che è nell’uomo, dall’altra un’idea di purificazione necessaria che abbraccia tutta intera la condizione umana, religiosa e laica, intesa altresì come spinta a realizzare la libertà da ogni condizionamento.
Un lavoro sul significato ed il valore teandrico dell’uomo - direi - e sulla sua aspirazione ad attuarsi in quanto essere libero in ogni momento della propria vita, tanto più e quanto più se sottoposto a rigide regole, a privazioni, a limiti, a punizioni.
Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor:
lavabis me, et super nivem dealbador.
Miserere mei, Deus,
secundum magnam misericordiam tuam.
Questo era il canto che si levava all’interno dell’Abbazia di Fontevraud nell’antifona del rito dell’aspersione extra tempus paschale e sono gli stessi versi che vennero in mente un’estate dei primi anni del Novecento a Joyce, all’epoca assiduo frequentatore dei bagni Fontana a Trieste, oggi noti come Lanterna, unico stabilimento che mantenga ancora la tradizionale separazione tra la spiaggia riservata agli uomini e quella alla quale possono accedere solo le donne.
Joyce cita i bagni Fontana in un passo dedicato al figlio neonato: «Lo tenevo in mare nei bagni di Fontana e sentivo con umile amore il tremito delle sue spalle fragili: Asperges me, Domine, hyssopo et mundabor: lavabis me et super nivem dealbabor»[7].
E anche Anton von Webern (Anton von Webern op. 16 no. 4 (1923-4), Fünf Canons, no. 4.) ha composto la propria musica echeggiando la medesima invocazione.
L’emozione di Joyce nell’atto di immergere quasi in forma battesimale il figlio piccolo nell’acqua del bagno marino non ha pari quanto a capacità di generare suggestioni.
Anch’io ho realizzato negli ultimi anni alcuni lavori in cui il tema dell’acqua è sviluppato sia con riferimento a particolari paesaggi d’acqua, sia con riferimento ad immagini e visioni che appartengono alla memoria e al mio vissuto personale, poeticamente evocate a partire da frames, fotogrammi di vecchi film Super8 da me stesso prodotti circa 30 anni fa ed elaborati ora con avanzate tecnologie al computer.
Un lavoro in particolare, Bagno Rosso del 2000 (Figura 5), formato da quattro lastre di acciaio verniciate a fuoco di cm 100 x 100 ciascuna da disporsi in quadrato (cm 200 x 200 complessivi) rappresenta una situazione molto simile a quella descritta dal poeta e scrittore irlandese.
Anche in questo caso sono in gioco non solo la sottile e complessa relazione che lega il padre al figlio, ma la poesia purificatrice e liberatoria, quasi mistica per certi versi, dell’immersione nell’acqua del mare o del fiume come principio di un comune ritorno.
Ripensando quindi il simbolismo della rigenerazione, così avvertito sul piano etico e non solo religioso, entro la dimensione di una spiritualità laica, che non può non riguardarci come possibilità di continuare a produrre speranze, utopie, pensieri generosi in grado di opporsi al feroce nichilismo del mondo contemporaneo, avevo immaginato inizialmente che il lavoro avrebbe potuto essere stato completato dall’installazione in un secondo spazio, quello della Navata della Cappella di Saint Benoit, di una struttura costituita da una serie di televisori disposti a parallelepipedo entro i quali scorreva un’acqua virtualis, con l’effetto di una sorta di colonna liquida sospesa nell’aria, entro cui il liquido si espandeva con un movimento costante che attraversava i monitors dal basso in alto e su tutti i lati, accompagnato dalle parole dell’antifona: asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbador, anch’esse trasportate dall’acqua.
Le parole si dovevano muovere da una parte all’altra, attraversando come una corrente la materia acquea che costituiva la colonna, mentre un suono quasi impercettibile emanava, sospirava, respirava.
Concludo riferendomi ad un recente lavoro al quale sono particolarmente legato, anche per le amichevoli collaborazioni che l’hanno caratterizzato, in primis quella di Alessandro Di Chiara oltre a quelle di Giorgio Nonveiller ed Elio Matassi, e per la particolare destinazione che ha infine avuto.
Intorno all’opera infatti, dopo la sua prima esposizione a Venezia e in occasione della definitiva collocazione rapallina, si è sviluppato un convegno di studi dedicato al tema della croce.
Un complesso e gratificante iter voluto e curato da Alessandro Di Chiara.
Si tratta di La Soglia e la Croce, (Figura 6) oggi a Rapallo nell’Oratorio dei Bianchi, sede dell’antica Confraternita, adibita in particolare alle onoranze funebri.
Nella contiguità con la morte la possibilità di avvertire il respiro del sacro si fa più forte e oso desiderare che a tale condizione possa partecipare il mio stesso lavoro.
Tratta da un fotogramma di uno fra i tanti spezzoni cinematografici in super8 da me realizzati in forma di ricognizione memorativa ovunque mi trovassi, ma in particolare durante la quotidiana vita famigliare agli inizi degli anni 70, l’opera presenta il particolare momento di una processione della Croce, animata dalla presenza di alcuni fedeli. La Croce si staglia scura e lievemente obliqua sulla superficie luminosissima di un muro creando un violento contrasto.
A sinistra si apre lo spazio di una soglia, appena distinguibile.
Come ha opportunamente scritto Giorgio Nonveiller[8], commentandola, “tutta la rappresentazione è ridotta a pochi segni essenziali che ‘agiscono’ per sottrazione, evitando ogni possibile lettura convenzionale, accentuando invece una certa vaghezza, propria all’’atmosfera’ del rito religioso, entro il quale viene evocato il sacrificio della croce, carico di aspettative legate alla redenzione.
La rappresentazione è calibrata su una contrapposizione orizzontale di ombra e luce, che taglia la composizione in due, creando un effetto ponderato di ambiguità percettiva. Qualcosa resta celato nella figurazione e allude al non-visibile, ‘mostrando’ quei tratti minimi che paiono aprirsi al mistero della trascendenza.
Di contro a tutto ciò, siamo talmente invasi da un’iconosfera – opportunamente costruita - artefatta e riprodotta da portarci a eludere ogni esame di realtà, non meno di ogni rapporto tra la nostra interiorità, a cui diventa sempre più difficile attingere, e ciò che percepiamo come esterno. Tale iconodulia telematica vive di un’enfasi virtuale, ed è guidata da criteri esclusivamente ostensivi e spettacolari che l’artista, più che rafforzare deve smorzare ed, entro certi limiti, addirittura cancellare. Di qui il lavoro di sottrazione che abbiamo già richiamato e che muove decisamente verso la “bassa definizione” dell’immagine digitale affinché diventi – come in questo caso - inversamente proporzionale alla sua artisticità. Qui la particolare Stimmung è ben lungi dal precipitare nell’indistinto ma, proprio nel celare, indica ciò che va oltre l’immagine e che non si dà a vedere. L’opera di Viola si propone di evocare l’interiorità e, pertanto, non può non avere una risonanza soggettiva. Se il vedere, paradossalmente, qui allude a ciò che non si vede, la stessa ‘messa a fuoco’ dell’immagine non può che suggerire al riguardante un’attitudine interrogativa.
L’immagine in questo caso si s-definisce e sembra muovere verso l’essenza, dato che ogni aggiunta, ogni precisazione, capace di circostanziarne l’apparenza, ci porterebbe fuori strada, poiché qui si tratta di eludere ogni “seduttività” iconodula. E, al contrario, la densità dell’immagine non precipita nel nulla ma è essa stessa un quasi-niente (come direbbe Jankélévitch), la cui pregnanza sta più dalla parte del simbolo che da quella del segno.
In questo caso l’essente sembra ritrarsi, quasi scomparire, lasciando poche tracce percepibili che si aprono alla meditazione“.
Elio Matassi ha dedicato alla stessa opera un primo articolo sull’Avanti![9] e successivamente un saggio[10] ove ne riprende l’analisi chiedendosi: “La crocifissione può diventare opera d’arte senza nulla perdere del proprio carattere evenemenziale? E una volta rappresentata in una specifica opera d’arte può essere reiterata senza che questo comporti un eccesso di drammatizzazione dell’evento? L’estetico in quanto tale può restituire l’eccezionalità della crocifissione senza farne uno “spettacolo” banale e banalizzante?”
La domanda non è di poco conto e la risposta da parte del filosofo apre uno squarcio interpretativo di straordinaria efficacia, ponendo un particolare accento sul valore poetico della mnesis:
“Sono interrogativi leciti che riflettono preoccupazioni di molti; penso in particolare, dato il prestigio letterario, a quel luogo di Elias Canetti, narrato in Die Fackel im Ohr (Il frutto del fuoco) dove lo scrittore si mostra infastidito se non addirittura disgustato dalla pretesa dell’imperturbabile “copista” che, dinanzi alla Pala di Grünewald, crede di poter riprodurre in tutti i particolari ed in tutte le sfumature il massimo di concentrazione dell’evento. Si può reiterare ciò che era stato reso con il pathos più elevato oppure quel tema, appunto quello della crocifissione, poteva essere rappresentato una ed una sola volta a meno di non voler perdere in autenticità ed in straordinarietà? Come reagire, che cosa contrapporre al fastidio ed al disgusto di Elias Canetti. Credo che l’unica modalità di eludere l’empasse sia la via percorsa da Luigi Viola in questo suo affascinante quadro, in cui la crocifissione “assoggettata” al filtro sottile del ruolo distanziatore della “memoria”, non esce ridimensionata ma esaltata.
Il pittore contemporaneo ha sedimentato nel profondo la grande lezione proustiana, la memoria come custode dell’arte e come redenzione del tempo passato; le luci “diffuse” in maniera stratificata della Soglia e la Croce stanno ad indicare chiaramente il percorso della salvazione mistica; solo attraverso questa lente d’ingrandimento il grande tema della crocifissione può tornare nella nostra contemporaneità senza perdere la sua carica “scandalosa”, senza diventare un evento consueto e consumato, uno tra i tanti e variegati cui i nostri occhi sono sottoposti ogni giorno, perché, nella sostanza, potremo istituire tra di loro solo una valutazione miglioristico-comparativa, in quanto ognuno potrà aspirare ad essere migliore dell’altro ma non ve ne sarà mai nessuno che potrà conquistare la vetta dell’assoluto, il primato del superlativo.
Perché la crocifissione possa ancora una volta, come la Pala di Grünewald, attingere quella dimensione superlativo-assoluta, è necessario scegliere lo stesso atteggiamento mnestico di Luigi Viola e del suo quadro. La memoria è diversa dalla mera rappresentazione specular-identitaria, esaltando la differenza, la specificità dell’evento senza sbiadirne l’immagine in una riproduzione ormai obsoleta. La “crocifissione” di Viola ha dunque questa grande qualità mnestica che Deleuze riconosceva solo alle grandi immagini, alle immagini-movimento, a quelle temporali e temporalizzate che nel loro cortocircuito possono recuperare integralmente la dignità dell’evento. Non vi è nulla di banalmente “cinematografico” nell’atteggiamento dell’autore de La soglia e la Croce ma uno sguardo sofisticato che riesce a sottrarsi alle inquietudini ed alle contraddizioni in cui incorre lo spazio della rappresentazione estetica.
Credo che la conclusione migliore sia racchiusa nei versi di Andreas Gryphius, Der Tod (la morte): “A che pro il mondo intero? O uomo, suona la tua ora! / Prima che tu credessi! Chi non impallidisce? / Bellezza è inselvatichita, il valore svanisce, / nebbia è la nobiltà, scossa è la forza. / Qui cade su una bara chi ha cappello e corona, / la gran parte è in svendita, i ricchi non han vallo. / L’età non è evidente, i corpi deformati / (amici, buona notte!) giacciono nella polvere. / Tu parti! Tutto solo! Da qui! Per dove? E presto? / Questa è la via del cielo, quella apre l’inferno, / dopo che il fiero principe ha scandito il giudizio. / Niente tu porti al mondo, niente ne porti via. / L’attimo senza eguali ha preso quanto abbiamo. / Ma le sue opere ti seguono. O uomo, l’ora suona! /”.
Il dolore e la maledizione dell’essere, la caducità e la vanità di tutte le cose in un mondo dominato dal peccato, dall’errore e dal caso, possono essere riscattati da una “grande arte” che “non è in svendita”, come suggerisce Gryphius, una “grande arte” che riesce a salvare dalla dannazione e dalla caducità “l’attimo senza eguali”, quell’attimo senza eguali della crocifissione che la “grande arte” di Luigi Viola è riuscita a riscattare con la memoria”.
Ma la memoria è “custode dell’arte e redentrice del tempo passato” proprio in quanto anche capace di condurre, noi pellegrini dell’assoluto, alla soglia che ci indica simbolicamente il punto d’incontro di sacro e profano.
Come scrive Di Chiara “… la processione inizia in chiesa e termina in chiesa come per stare a significare che in essa dimora il sacro, mentre l’avanzamento dei fedeli avviene a passo misurato per le vie della città dove alberga, secondo la communis opinio, il profano. Questa diade sacer – profanus sembra quindi essere esemplarmente testimoniata dal rapporto dialettico che intercorre tra l’ecclesia come luogo di culto e la strata come cammino di perdizione dove si stende l’empio e il sacrilego. Tra le due vie si trova la soglia che dischiude verso la possibilità tra l’essere e il Nulla, tra il tempo e l’eterno, dove la vita diventa ciò per cui è”[11].
L’esperienza dell’arte intesa come domanda di senso e interrogazione senza fine, come espressione di una relazione costitutiva con il sacer, si muove ancora oggi intorno alla relazione messa in luce da Di Chiara e ci sollecita a incontrare nel quotidiano e nell’ordinario ciascuno la propria soglia, attraverso una continua capacità di allusione a quel reale che non si dissolve nel visibile.
Pratica dell’invisibile dunque ed inesausto movimento verso quell’ignoto centro da cui s’ illumina la tenebra mondana e da cui muove ogni altra pratica è la pratica dell’arte, attività simbolica per eccellenza, perché la natura dell’arte, nella sua assoluta simbolicità originaria, letteralmente nella sua capacità di gettare in campo, tenendole insieme, cose in sé diverse e apparentemente divise, è tale da metterla in grado, proprio nella sua contraddittoria genericità, di veicolare ogni relazione per quanto paradossale e può ancora suggerirci una visione del mondo - sulla quale oggi poter riflettere.
L’arte, rompendo ogni schema precostituito, ogni forma chiusa ed ogni specialismo operativo, può farsi espressione di una necessaria e nomadica libertà, fondata su un pensiero rizomatico e non omologabile, sull’atopica/utopica assenza di luoghi.
In questo modo essa, anziché accettare un destino di annichilimento nel mondo, può continuare ad annidarsi nelle pieghe del reale e, facendosi essa stessa figura della piega (folding), può ancora inviare all’uomo segnali di senso, pallide luci dell’essenza, può ancora parlarci d’altro.
Una condizione interrogante ed interrogabile nelle forme di un sentire prima ancora e molto più che di un capire, di un intelligere.
La pratica del “sentire” rispetto a quella del “capire” include terreni (alogici, prelogici, onirici, fantastico-immaginativi, deliranti), che non trovano buona accoglienza nell’ambito dei saperi di ordine logico-razionale. Per questo gli artisti, ma soprattutto le loro opere, sono guardati con diffidenza e talvolta con sufficienza da chi identifica il concetto di bene con quello di progresso e di ordine razionale, così come questi si sono espressi nella tradizione del pensiero occidentale e nel moderno apparato scientifico-tecnologico, ovvero prima attraverso il potere del linguaggio, del logos, poi attraverso lo strapotere dell’apparato scientifico-tecnologico.
D’altra parte può fare comodo a molti di collocare su un terreno infido come quello del sentire, una pratica che appare discutibile nei suoi stessi fondamenti alla luce di quei vantati principi logico-razionali. Una marginalizzazione di questo tipo risulta inaccettabile per noi.
In realtà sono sostanzialmente due le conseguenze decisamente intollerabili che l’opera conduce con sé: la sua costitutiva e fondativa caratteristica di trasgredire la regola ogni qual volta la si pratica, mettendo così in discussione i propri statuti e la sua conseguente sostanziale irriducibilità a tutti gli ordini, compreso quello del linguaggio, il suo rifiuto ad essere posseduta fino in fondo, nonostante i tentativi della critica e di tutti i linguaggi secondi.
Dunque se noi parliamo di un sentire è perché vogliamo con questa parola indicare una pratica di pro-duzione di senso più che di significati, una pratica di emersione e manifestazione di una facoltà di provare, di sperimentare, di teorizzare ossia propriamente di vedere, di imparare a conoscere, di essere consapevoli, di ri-tenere, e pertanto di comprehendere, afferrando un qualche cosa che non si fa per altre vie conoscere e che è la sostanza stessa dell’opera e dell’essere artista nel comune destino con l’opera.
Ciò significherà che l’esperienza dell’arte, di cui l’opera è l’epifania, è sì un’esperienza profondamente conoscitiva, attraversabile dalla ragione, ma niente affatto riducibile al suo puro e nichilistico dominio. Epifania dell’arte e ierofania del sacro[12] (Eliade) sono in modo non dissimile la manifestazione di una potenza di ordine diverso rispetto alla natura e alle forze che la dominano, di ordine altro.
Ma egualmente non si può dire opera senza dire destino. Da soli e in relazione tra loro i due termini costituiscono un’immagine straordinaria della complessità che abbiamo davanti.
Altre parole chiave sono: Poiesis, Tyche e Ananke, fare libero e necessario, Aletheia, Eidos, Aeternitas, oltre il tempo dell’uomo, oltre la quotidianità.
L’opera, in quanto irriducibile, pro-duce sempre una ulteriorità, un altro ancora, che ci costringe a pensare o meglio a teorizzare, theorein, a vedere, intra-vedere qualcosa che pur essendo non può essere del tutto detto.
La domanda in fondo è la seguente: cos’è davvero l’opera e dove sta la sua facoltà, la sua magnificenza, la sua capacità di rendere grande chiunque le si avvicini, la sua opulenza senza sfarzo?
La radice della parola ci aiuta a capire: opus-ops è quella forza, quella potenza, tutto ciò che pone in condizione di fare grandi cose. Ma Ops è anche il nome della dea dell’abbondanza e del raccolto, più tardi identificata con Rhea o Cibele, l’opima frugum copia che protegge il grano una volta deposto nel granaio.
Come vediamo essa è dunque insieme fin dall’inizio facoltà e destino di sopravvivenza, questa è la sua folgorante verità, questo suo stare ad immagine di un tempo aeternus, tempo dell’indistruttibilità e dell’irremovibilità, eterno o aevi terminus, sulla soglia o linea di confine del tempo storico, nell’ordine immutabile delle cose, nell’ordine di ciò che è ed è per sempre, un fare che sospende il tempo, un tempo della sospensione. Opera vera e necessaria.
Sì, opera vera non perché essa rappresenti la verità o una parte di verità tout -court, tanto meno una propria relativa verità, ma perché in essa può mostrarsi qualcosa dell’origine e del suo mistero, del sacro, in un trasparire e in un e-venire che rompono la scorza dura di ogni linguaggio, di ogni non verità, di ogni nichilismo.
Non è certo trascurabile il fatto che l’opera d’arte, a differenza di altre opere umane, presenti come caratteristica sua propria la necessità, per compiersi, di una costante apertura di senso e di un orizzonte di attesa veritativa che solo nella religione e nella filosofia possono trovare eguale cittadinanza ideale e che nel caso dell’arte appaiono inoltre collegati come un tutt’uno alla sua stessa e specifica natura infelice, così vorrei chiamarla con un’espressione che normalmente potrebbe essere colta come indice di un difetto, di una mancanza, una sorta di diminutio, e che è invece una forza che circoscrive i guasti del logos.
È nella natura del logos infatti ridurre ogni cosa a concetto, ad astrazione, ma ciò facendo si finisce col restringere sempre più l’orizzonte del possibile traducendolo in quello del probabile, assai meno ricco di aperture e di ferite, attraverso le quali il sacro originario può manifestarsi.
Ciò vuol dire che il destino dell’Occidente logico-tecnico-scientifico è ormai quello di perdere definitivamente ogni traccia di verità e comunque di non poterne cogliere più la presenza. Ed insieme di rinunciare per sempre all’autentica esperienza del sacro, laddove la scienza, comtianamente superiore forma di conoscenza, diviene la nuova religione laica capace di dare agli uomini valori socialmente cogenti, il "grande essere".
Questo vuol dire altresì che soltanto l’arte, con la sua natura infelice potrà continuare ad esprimere la necessità del sacro? Lo pongo come un interrogativo e una fondata ipotesi.
Ma come si manifesta e in che cosa consiste la natura infelice dell’arte? Nel fatto proprio di non consistere di solo linguaggio, ma di materia, di non essere solo concetto ma espressione (ex - premere). È questa opacità nettamente contrapposta alla trasparenza della scienza e di gran parte della stessa filosofia, questo grumo di terra greve e questo nodo irrisolvibile, questa piega insondabile ad offrire la più grandiosa apertura di senso che possa precedere ed intersecare ogni possibile linguaggio umano.
Opacità che è sostanza effettiva ed efficace dell’evenire dell’opera, continuo rimando al completamente altro.
Condotta dall’arte, l’originaria verità e la magnificenza del sacro possono apparire nella cosa e possono apparire in quanto necessari.
Nell’opera si realizza dunque un processo di disvelamento di sé e dello stesso artista, il quale mostra, potremmo dire con le parole di Agostino, ciò che è più intimo dell’anima sua, attraverso l’epifaneia della poesia, di una poiesis intesa come un fare che è frutto di un’azione umana priva di intenzioni, di una praxis originaria che consente all’opera di darsi infine essa stessa come telos o compimento ed anche esito dalla prigione del silenzio, exitus de Aegypto possiamo parafrasare, poiché è l’invisibile che si mostra e il visibile che arretra, per darsi al theorein che la contempla, accadendo secondo necessità propria, non rimandando ad altro da sé, totalmente riposando in sé stessa.
Si tratta della costruzione di un vero e proprio atto vitale.
La libertà, la bellezza e l’eternità dell’arte sono pari soltanto all’intima coerenza interiore che ad essa è richiesta, alla necessità del proprio ordine, ma di un ordine che non subisce pressioni estranee, venute da fuori a sottrarre coerenza ed autonomia alla concezione dell’opera.
L’artista, in quanto fattore e demiurgo, deve essere osservante della legge, ma di quella legge interiore, di quell’ordine che ispira il suo fare, che egli trova dentro se stesso oltre che nella natura e che si manifesta nell’arte, nella techne, qualsiasi causa – dice Platone – che fa passare qualcosa dal non essere all’essere.
Questo è il mistero dell’arte. Trarre dal Silenzio, un Silenzio che parla nell’artista, e quasi per caso, apò Tyches come dice Aristotele, l’inesprimibile e il necessario.
L’atto dell’artista che ci riconduce all’origine della materia determinandola come essente, acquista il significato generale del dominio su tutto ciò che è plasmabile, su tutto ciò che è forma, distanza ed avvicinamento al nulla originario, al vuoto purissimo.
Forse l’arte è proprio questa sospensione sull’abisso del nulla, e del nulla, della sua presenza necessaria, essa riferisce agli uomini, del fascino del principio, indicandoci, nella sua determinata indeterminatezza, il fondamento della struttura dell’esistente, dove necessità e caso volgono insieme. La stupefazione per il prima che si fa oltre apre il varco al sentimento del sacro.
Arte=artus, arto, articolazione e giuntura tra necessità e caso, tra verità e linguaggio, tra topos e atopia, tra storia ed eternità. Ne deriva allora una ulteriore possibilità interpretativa: arte come between e piega deleuziana, figura di una relazione di complessità, che è evidente fin nel gioco etimologico pliancy - complication.
Ma il ruolo rilevante attribuito in questi anni alle teorie della complessità in campo scientifico - ossia la convinzione che esse possano funzionare come modelli interpretativi che riescano a dare ragione della caotica contraddittorietà del reale, della molteplicità frattalica del suo presentarsi, attraverso geometrie autogenerative non più riconducibili ad un inizio, per ridurre così i rischi della vera catastrofe impliciti in un pensiero nomade e rizomatico per eccellenza come quello contemporaneo, teso a dissolvere e decostruire ogni forma conosciuta, assumendo anzi il modello stesso della catastrofe come ipermodello e perfino come modello autointerpretante (pensiero che trova una non banale esemplificazione in concetti come flessibilità, virtualità, mondializzazione, ecc.) - è in qualche modo confrontabile con il concetto di complessità dell’opera, quale noi abbiamo fin qui se non descritto, almeno tentato di avvicinare?
L’interesse dimostrato in alcuni settori avanzati della ricerca scientifica per l’esperienza della creatività artistica - tutti conoscono l’esempio famoso del MediaLab del MIT - e viceversa l’interesse non imitativo di alcuni artisti per la ricerca scientifica e le nuove tecnologie, evidenziano un possibile intreccio, un ipotetico, utopico, atopico luogo di incontro dove destini diversi potrebbero reciprocamente perfezionarsi e compiersi in un unico e solo destino dell’umano, in cui mortalità ed immortalità, sacro e profano siano restituiti alla propria condizione di verità.
Tuttavia non sembra davvero che questo tipo di nuova consapevolezza stia generalizzandosi nella realtà sociale, al contrario il perdurante e massiccio dispiegamento di un assoluto dominio da parte dei saperi scientifici e tecnologici, i primi sempre più dipendenti dai secondi - penso alle cosiddette tecnoscienze - e la totale trasparenza e globalizzazione del reale che ne derivano, con conseguente perdita dell’identità materiale e culturale, impongono perfino di riconsiderare la possibilità stessa di avere un qualsivoglia destino, il quale oggi, nel senso proprio del termine, sembra essere stato sottratto alla nostra condizione di uomini.
L’arte oggi si trova ben rappresentata nella figura della piega, del folding, e nella dimensione della complication, ma non perché essa abbia la pretesa di conseguire per tale via un dominio sul reale, insidiandone la complessità, desumendone i modelli per schematizzarli e clonarli, tentando la struttura della catastrofe in un pericoloso gioco di sostituzione del reale, bensì perché essa abita da sempre la piega intesa come dimensione non lineare, non progressiva, non invasiva, non dominante, non esibizionista, articolata (arte-arto) ed elastica della ricerca.
La flessibilità di una semplice goccia d’acqua che corre sulla superficie rugosa dell’albero piegandosi ad essa, seguendone le tortuosità, insinuandosi tra le fessure, tracciando sentieri interrotti.
Opera orientale, nascente chimera, araba fenice, memore destino, cristallo di sale, sale della terra, oscura illuminazione occidentale, domanda di senso, interrogazione senza fine intorno alle pratiche e ai linguaggi che portano alla scoperta di sé e del mondo, pratica assolutamente impratica, radicalmente interrogativa e priva di specifiche finalità, ma necessaria, continua capacità di allusione a quel reale che non si dissolve nel visibile, apertura all’invisibile, ierofania del sacro.
Se l’arte è tutto ciò, come si può essere artisti?
Artisti si può essere per scelta, esercitando la propria libertà nei confronti del destino, ma questo atto di estrema libertà, di arbitrio, nasce sul terreno di una originaria necessità che fonda ogni possibile condizione. Come dire che artisti si diventa perché così è necessario.
Ed è egualmente per questo che quella dell’artista è una condizione libera, ma pur sempre condizione, ossia annuncio di un comune accordo, quello corrispondente alla decisione di stare entro un dominio cui non ci si può sottrarre. Mancando gli artisti verrebbe meno anche la vita dell’arte. Essa sarebbe niente più che un fantasma, una lingua morta.
Abbiamo visto infatti come l’arte, nel suo cammino storico fino al presente, si sia manifestata come forma della necessità ed insieme come atto di libertà, come espressione del senso e come straordinaria apertura all’orizzonte del vero e del sacro, come fondamento radicale dell’esperienza dell’altro, ma di converso c’è da chiedersi in quale direzione potrebbe mai procedere, se non nella direzione tragica di una fatale e nichilistica sparizione, una realtà che da tale viva esperienza irrimediabilmente si allontanasse, poiché si deve pur convenire che quello che vediamo sempre più di frequente davanti a noi è – al contrario di quanto vorremmo - una pratica artistica che tende a banalizzare il significato dell’esperienza fino a negare l’idea stessa dell’arte come possibilità e capacità di produrre visioni, pensieri, trasgressioni, nuovi simboli, comportamenti, sentieri.
Ciò che ci è richiesto di fare dunque è di ripensare il fondamento, sentendoci chiamati ad un’etica della responsabilità: questo è il cammino che gli artisti, pellegrini dell’assoluto, hanno davanti a sé.
Tavole
Figura 1 L. Viola, In quibus membris corporis umani sacra religio, performance, Milano, 1973
Figura 2 L. Viola, Renaissance, performance, Venezia, 1975
Figura 3 L. Viola,Grund – Grab, multistrato, ferro, argento, stampa meccanografica, 1996
Figura 4 L. Viola,Asperges me Domine, videoinstallazione, Abbaye Royale de Fontevraud, 2005
Figura 5 L. Viola, Il bagno rosso, aerografo computerizzato su acciaio, cm 200 x 200, 2000
Figura 6 L. Viola, La Soglia e la Croce, laserprint su alluminio, cm 160 x 200, 2005 (Oratorio dei Bianchi Rapallo)
[1] Acquaviva Sabino, L' eclissi del sacro nella civiltà industriale, Milano, Edizioni di Comunità, 1980
[2] Rudolf Otto, Il Sacro, Milano, Feltrinelli, 1994 (76)
[3] Claude Levi-Strauss, Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960
[4] Umberto Galimberti, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Milano, Feltrinelli, 2000
[5] Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Torino, Bollati Boringhieri, 1973
[6] così recitava la regola fontevraudista
[7] James Joyce, Giorgino in: Rubrica di Trieste, 1914; cit.in: Renzo S. Crivelli , James Joyce - Itinerari triestini, MGS Press, Trieste, 1996
[8] Giorgio Nonveiller, Luigi Viola, La soglia e la Croce, Rapallo, Il ramo Editore, 2005
[9] Elio Matassi, il dolore e la maledizione dell’essere: da Gryphius a Luigi Viola la linea di continuità per interpretare il tema della crocifissione in: L’ Avanti!, 2005
[10] Elio Matassi, La crocifissione come opera d’arte, Rapallo, Il ramo Editore, 2005
[11] Alessandro Di Chiara, La Soglia e la Croce, Rapallo, Il ramo Editore, 2005
[12] Mircea Eliade, Traité d'histoire des religions, Lausanne, Payot,1986 trad. it. di V. Vacca, Torino Bollati Boringhieri, 1999